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11 Novembre 2022 – Donata Columbro

(Pubblicato originariamente da La Stampa l’11 novembre 2022)

In Italia i nuclei familiari in attesa di assegnazione di un alloggio popolare sono 650mila, e altre 150mila sono a rischio sfratto secondo Federcasa e i sindacati della casa nazionali. Quante sono le donne all’interno di questo insieme di persone? Non ci sono dati che lo raccontano.

Quando si parla di diritto alla casa o diritto all’abitazione si fa riferimento a diritti che sono garantiti non solo dalla nostra Costituzione – che lo richiama all’art. 47 e in ripetute sentenze della Corte costituzionale, affermando che “è doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione” – ma anche in numerosi trattati internazionali come diritto di base senza il quale gli esseri umani non potrebbero godere degli altri, come per esempio il diritto alla salute e a una vita dignitosa.

C’è un filo che lega però questi richiami e lo studio di politiche per migliorare l’accesso alla casa da parte delle fasce di popolazione più fragile: la mancanza o l’incompletezza di dati che riguardano il diritto alla casa per quanto riguarda le donne. La maggior parte dei report e delle indagini, anche quelle nazionali, prendono infatti in considerazione i dati sui nuclei familiari, senza specificare da chi sono composti o senza fornire il dato disaggregato sul sesso.

Quali sono i dati che servono?
All’interno dei database sulle condizioni economiche delle famiglie troviamo informazioni sull’incidenza della povertà per i singoli (e qui abbiamo le informazioni separate per sesso), il numero di famiglie che vivono in case di proprietà o in affitto, l’ampiezza della famiglia che vi abita, ma anche l’accesso alle abitazioni popolari, le condizioni delle case, la quantità di persone che ci vivono e tutte quelle situazioni che impattano le condizioni economiche e di povertà delle popolazioni.

I dati relativi all’Italia si possono osservare sul sito dell’Istat dentro l’indagine sul reddito e le condizioni di vita delle famiglie, che nasce all’interno del progetto “Statistics on Income and Living conditions” (Eu-Silc) coordinato da Eurostat.

I riferimenti al sesso nel database dell’Istat si ritrovano solo nella sezione relativa alla povertà dei singoli, dove ci sono dati disaggregati per sesso e per età, e nella sezione sul principale percettore di reddito (cioè chi ha lo stipendio più alto) 2021 spesa mensile per la casa, 303€ (12% del reddito), di poco inferiore rispetto alla spesa che spetta quando il principale percettore è l’uomo, rispetto ai 329€, 11% del proprio reddito mensile. Nella sezione “Titolo di godimento dell’abitazione”, cioè se in affitto o di proprietà, c’è un’indicazione rispetto all’essere un nucleo monofamiliare o con figli, ma senza riferimento al sesso.

Come sottolinea la giornalista e ricercatrice indipendente Sarah Gainsforth nel suo illuminante saggio Abitare stanca (effequ 2022) “in Italia le politiche, ma anche le analisi e i rilevamenti di dati statistici, ruotano intorno alla dimensione della famiglia, in una società composta da una moltitudine di soggetti che nulla hanno a che fare con la struttura familiare tradizionale”. La società evolve, il modo in cui raccogliere e pubblicare dati per raccontare efficacemente come, no.

Questo è “giustificato dall’assunto che all’interno della famiglia esiste un’equa distribuzione delle risorse”, sottolineano le economiste di inGenere Marcella Corsi e Giulia Zacchia, “ma l’uso della famiglia come unità d’analisi della povertà oscura le disuguaglianze di genere nell’uso delle risorse, compreso il tempo, all’interno dei nuclei domestici”.

Eppure, la situazione è in parte fotografata dallo stesso Istat, che lo scorso luglio ha pubblicato il Report Annuale in cui ha rivelato disuguaglianze di genere drammatiche, come sottolineato anche dall’associazione Period Think Tank, che fa attivismo e advocacy per chiedere che nei bilanci comunali vengano introdotti dati per valutare l’impatto delle politiche con una prospettiva di genere. Secondo l’Istat l’11,7% delle famiglie monogenitoriali è in povertà assoluta e l’80,9% delle famiglie monogenitoriali è composto da madri sole. Il 38,8% delle donne over 65 vive da sola rispetto al 19,5% degli uomini.

Quante di queste fanno parte delle persone in attesa di un alloggio popolare? O che hanno chiesto aiuto per pagare l’affitto?
Alcuni dati che abbiamo a disposizione relativi al genere arrivano dal Rapporto biennale sul patrimonio italiano realizzato dall’Agenzia delle entrate e dal dipartimento delle finanze del ministero dell’economia relativo al 2016, per cui sappiamo che le donne proprietarie di abitazioni erano circa 800 mila in meno degli uomini, ma in aumento rispetto al 2014, e il valore delle loro abitazioni è maggiore, nonostante il reddito sia nettamente inferiore a quello degli uomini. Senza poter incrociare questi dati con i report di Istat però restano incompleti.

E se pensiamo che l’accesso alla casa, alla possibilità di acquistarne una o prenderla in affitto spesso deriva non solo da condizioni economiche, ma dalla garanzia di un lavoro stabile, non possiamo ignorare il dato che ci racconta che il 47,2% delle donne lavoratrici tra i 15 e i 34 anni è una lavoratrice non standard, intendendo con questo termine chi si trova in condizioni di scarsa continuità o intensità lavorativa (precaria o part-time, spesso involontario) rispetto al 34,4% dei loro coetanei uomini. (Istat 2022).

Giulia Sudano, presidente di Period ThinkTank, ricorda che “la casa è sì un diritto umano, ma anche un percorso verso l’autonomia per le donne”, e per questo l’associazione sta chiedendo alle amministrazioni pubbliche di inserire indicazioni di genere che servirebbero anche a monitorare l’impatto degli investimenti del PNRR in ottica di genere.

In particolare, il think tank femminista ha messo in evidenza la necessità di dati come le persone in attesa di case popolari per genere, le persone in social housing per genere

il numero di nuclei monoparentali o famiglie a più nuclei con una donna capofamiglia e le persone che abitano in spazi occupati (pubblici e privati) per genere.

Senza dati, è impossibile progettare città femministe
Il diritto a condizioni di vita dignitose riguarda sì l’accesso alla casa, ma anche le possibilità di accedere a servizi come scuole e asili nido, soprattutto se proviamo a osservare le città in un’ottica intersezionale, come per prime hanno provato a fare negli anni 60 le attiviste dell’Unione Donne Italiane, organizzazione che ha dato un contributo fondamentale alla legislazione in materia di urbanistica in Italia chiedendo l’inserimento dei servizi di pubblica utilità come gli asili nido nei piani delle città, come ben documentato nel libro di Gainsforth: “il concetto stesso di standard urbanistici, ovvero tutto ciò che fa una città oltre le case, e che bisogna pianificare quando si pianificano le case (quantità minime di spazi pubblici, verde, parcheggi, limiti di densità edilizia, limiti di altezza degli edifici e di distanza tra i fabbricati, eccetera) fu allargato, grazie alla battaglia delle donne, non solo in quanto componente ‘tecnica’ dell’urbanistica”, racconta.

Secondo Leslie Kern, autrice de La città femminista e La gentrificazione è inevitabile e altre bugie (Treccani) serve uno sguardo intersezionale per la nuova progettazione delle città, che parta dai corpi. Comincia osservando il suo, quello di una donna bianca cisgender non disabile, comunque privilegiato, per arrivare alle persone che fanno parte delle comunità indigene, della popolazione di colore, della comunità transgender, delle persone con disabilità o delle sex worker. Come si muovono questi corpi nelle città di oggi? Di quanta libertà possono godere e come è cambiata nel corso degli anni?

Per saperlo, dobbiamo raccogliere e rendere accessibili i dati che riguardano questi corpi. A partire da quelli delle donne.