.10  Novembre 2022 –  Oiza Q. Obasuyi (Pubblicato originariamente da […]

illustrazione: Rositsa Raleva- The Greats

10  Novembre 2022 –  Oiza Q. Obasuyi

(Pubblicato originariamente da Valigia Blu il 10 novembre 2022)

La narrazione adottata dalle principali fonti di informazione italiane quando si parla di immigrazione, persone di origine straniera e razzismo tende spesso a dividersi in due tipologie: la banalizzazione del razzismo sistemico da una parte, e dall’altra la criminalizzazione delle persone. Quest’ultima avviene attraverso parole d’ordine come “emergenza” e “sicurezza”, che spesso emergono nelle testate giornalistiche mainstream, in particolare quando si parla di sbarchi o di aree urbane con maggior presenza di persone straniere. Tale modo di raccontare i fatti non solo ha un impatto reale sul pubblico, che a sua volta può adottare comportamenti ostili e discriminatori nei confronti di chiunque abbia un retroterra migratorio, ma è sintomo anche della mancanza di una pluralità di voci di varie origini all’interno sia dei media che delle redazioni italiane.

Tra criminalizzazione ed emergenza

Avere cura di come vengono inserite nazionalità o origine di una persona nel testo non significa inquinare la veridicità di un fatto di cronaca realmente accaduto e che ha visto coinvolte persone di origine straniera. Piuttosto, significa evitare che tratti come nazionalità, origine o colore della pelle di una persona diventino parte integrante di una colpevolizzazione, in particolare quando si parla di un reato commesso. L’Associazione Carta di Roma nelle sue Linee guida ha già sottolineato questo enorme problema nell’analizzare la copertura della cronaca nei giornali italiani. Per esempio, scrive l’Associazione:

Mentre sarebbe utile alla comprensione della vicenda scrivere “cittadino albanese arrestato alla stazione: era ricercato dalla polizia di Tirana”, la designazione attraverso la nazionalità sarebbe superflua in un generico caso di cronaca nera come “Albanese arrestato: non si era fermato a un posto di blocco”. Questo modo di riportare una notizia infatti, suggerirebbe che la nazionalità di una persona è rilevante per spiegare le azioni del soggetto e si favorirebbe l’associazione automatica nel lettore tra nazionalità e fatto criminoso […].

Questi accorgimenti sono tutt’altro che banali, poiché impattano sulla percezione, nella vita quotidiana, che le persone hanno delle minoranze, e quindi incidono anche nel contrasto alle discriminazioni e alle generalizzazioni. Tuttavia non sono tenuti in considerazione, andando quindi anche ad alimentare una propaganda allarmistica e razzista. Questo tipo di narrazione generalizzante emerge soprattutto quando si parla di violenze sessuali, stupri e molestie ai danni di donne italiane da parte di cittadini stranieri. L’essere cittadino straniero diventa il vero problema, e l’argomento principale si sposta sugli sbarchi dal Mediterraneo più che sull’ennesima prova che esiste un problema sistemico – e globale – di machismo e violenza di genere e che soprattutto non esiste alcuna differenza tra un violentatore italiano o straniero. Nell’agosto del 2018, per esempio, a Jesolo riportando un caso di stupro ai danni di una 15enne, i titoli di giornale erano questi: ”Stuprò minorenne sulla spiaggia di Jesolo. Senegalese condannato a 3 anni e 4 mesi (Il Messaggero, 28 agosto 2019); ”Jesolo, fermato senegalese per lo stupro di una ragazza di 15 anni” (La Repubblica, 25 agosto 2018). Più recentemente, l’attuale presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha pubblicato il video dello stupro di una donna ucraina avvenuto a Piacenza, in piena campagna elettorale, poiché il fatto che lo stupratore fosse un richiedente asilo sarebbe stato ancor più funzionale alle sue modalità di propaganda.

Oltre a diventare un assist alle discussioni e alla propaganda politica razziste che poi finiscono nella generalizzazione di tutte le persone di origine straniera, specialmente se provenienti da un Paese del Sud globale, questo modo di fare informazione non aggiunge nulla di realmente rilevante alla questione sistemica che riguarda la violenza di genere. Al contrario, dà modo di pensare che quest’ultima riguardi solo quella parte della società facilmente più condannabile e quindi criminalizzabile – questo reso possibile anche dal frame di “emergenza stranieri” permanente che non pochi media mainstream adottano. In questo caso, ad esempio, il quotidiano La Verità, nel mese di agosto, aveva pubblicato in prima pagina un articolo dal titolo “Porte aperte al prossimo stupratore”, e nel sottotitolo veniva riportato che il 40% degli stupri in Italia è commesso da stranieri. Sviscerando questa affermazione, la redazione di Pagella Politica (progetto editoriale che si occupa di fact-checking e analisi dell’attualità politica) ha spiegato come questa affermazione sia falsa:

In Italia gli stupri sono commessi in oltre tre quarti dei casi da persone con cui la vittima ha una relazione affettiva o amicale: per la precisione, nel 62,7% dei casi da partner (attuali o precedenti), nel 3,6% per cento da parenti e nel 9,4% da amici. Quelli subiti dalle donne italiane sono stati commessi da italiani in oltre l’80% dei casi.

Andando oltre ai numeri, è necessario poi ricordare che il discorso non può concludersi qui e che il coinvolgimento delle persone razzializzate, a maggior ragione le donne di origine straniera, è necessario. Come ha affermato l’Assemblea Donne Migranti (del Coordinamento Migranti di Bologna) in relazione alla violenza sessuale avvenuta a Piacenza:

Lo stupro di una donna a Piacenza è stato trasformato in un’occasione per raccattare voti. Salvini e Meloni, come da tradizione, ne hanno approfittato per rilanciare la propria politica razzista. Entrambi hanno sottolineato che lui era un richiedente asilo, entrambi hanno promesso di garantire alle città maggiore sicurezza quando saranno al governo, lasciando intendere che la loro sicurezza colpirà tutti i migranti.

E ancora:

Siccome noi sputiamo ugualmente sul razzismo e sul sessismo, siccome a noi interessa la politica femminista e non la cronaca nera elettorale, a Piacenza vediamo un uomo che ha stuprato una donna, come fanno quotidianamente, in pubblico oppure nel privato familiare protetto dallo sguardo e dalle fotocamere degli smartphone, moltissimi uomini di ogni colore, religione e cultura, con in tasca documenti di tutti i paesi. […] Diciamo che il razzismo alimenta la violenza maschile distinguendo tra donne che possono essere violate per il colore della loro pelle e donne che per il colore della loro pelle ‘meritano’ protezione, magari attraverso altra violenza. Diciamo che uno stupro è uno stupro, chiunque lo commetta.

Questo tipo di narrazione su un’emergenza permanente si trova anche nelle notizie relative ai flussi migratori, nonostante, anche in questo caso, i dati smascherino un certo tipo di propaganda che continua a descrivere i fenomeni migratori in termini di “invasione”.. Come spiegano i professori Pierluigi Musarò e Paola Parmiggiani del Dipartimento di Sociologia e Diritto dell’Economia (Università di Bologna) nel libro Ospitalità mediatica. Le migrazioni nel discorso pubblicole straniere regolarmente residenti in Italia si sono assestate ormai da 6 anni a poco più di 5 milioni, pari a circa l’8,5% della popolazione residente, sono in lieve prevalenza donne (52%), provengono in maggioranza da paesi Europei (51%, di cui quasi i 2/3 da paesi UE) e confessano in prevalenza una religione cristiana (54%).

A questi si aggiungono i rifugiati che sono poco più di 200mila e le persone immigrate prive di documenti, poco superiori alle 500mila unità, rispettivamente pari al 5,7% e all’8,7% della popolazione straniera complessiva presente in Italia. Inoltre, la retorica emergenziale e il dibattito che si crea intorno all’ennesimo sbarco o blocco in mare di navi ONG con a bordo persone che necessitano un porto sicuro, così stabilito dalle leggi internazionali vigenti, non aiutano ad affrontare la questione delle disuguaglianze nella mobilità internazionale. Sono problemi che vanno dalla questione del continuo rifiuto per l’ottenimento dei visti, alle discriminazioni dei passaporti (costantemente rese evidenti dal Global Passport Index) fino al contrasto delle violenti politiche repressive delle frontiere in cui, giornalmente, i diritti vengono schiacciati a causa dei respingimenti sistematici.

La grande assente nel discorso pubblico è la diretta interessata, ossia la persona di origine straniera – o con retroterra migratorio – che per propria esperienza o per i propri studi dovrebbe rappresentare un contributo prezioso per trattare queste tematiche. Eppure, come viene sottolineato nel rapporto Notizie ai margini (Associazione Carta di Roma, 2021), nonostante nel 2021  sia stato rilevato un calo delle notizie sull’immigrazione, “l’accesso diretto di migranti e rifugiati ai telegiornali, ossia la loro presenza in voce nei servizi, rimane limitato […]. Selezionando infatti tutti i servizi relativi all’immigrazione che contengono interviste, la presenza di migranti e rifugiati in voce è rilevabile nel 6% dei casi”.

Razzismo e media diversity

Chi parla di immigrazione (ma più in generale anche di razzismo, cultura, attualità o religioni) è prevalentemente bianco. Le trasmissioni che ospitano discussioni sul tema sono in prevalenza occupate da politici o giornalisti, perlopiù uomini, che trattano di questioni che non li riguardano in prima persona. Infatti, riguardo al coinvolgimento di professionisti/e stranieri/e o di origine straniera nel settore dell’informazione, nell’articolo “Media e diversità, in Italia redazioni prive di giornalisti stranieri” della testata Voci Globali, è stato sottolineato che, in molti casi, non solo i giornalisti e le giornaliste di origine straniera non vengono interpellate nella costruzione della notizia sull’immigrazione, ma sono chiamati in causa “per suffragare uno stereotipo” e “non si sentono quindi presi sul serio come professionisti”.

Come ha affermato la giornalista Sabika Shah Povia, che per via delle sue origini pakistane e la sua religione è stata più volte chiamata in causa per il caso di Saman Abbas, giovane uccisa dai propri familiari:

Spesso viene invitato un politico che ha un’agenda da inseguire e fa propaganda, viene chiamata una ragazza con il velo o un imam per difendere la religione, e qualcuno della comunità pakistana che possa fungere da capro espiatorio. Non si chiamano invece persone esperte di determinati temi. Sarebbe importante dare spazio ad altre figure professionali, come ad esempio psicologi di seconda generazione, operatrici dei centri antiviolenza, sociologi, persone impegnate nel terzo settore che cercano di portare un cambiamento concreto con il loro lavoro ogni giorno.

Parlando proprio del rapporto tra religione musulmana e donne, da come si evince da un’intervista di Radio Black Out a Leila Belhadj Mohamed, esperta di geopolitica, ci arriva una narrazione superficiale su “velo sì” o “velo no”, improntato sul paternalismo e senza una reale attenzione posta alle donne che lottano, con e senza il velo. Un simile argomento è infatti sostenuto dalle donne iraniane stesse che, manifestando anche in Italia a seguito dell’omicidio di Mahsa Amini, hanno dimostrato che la resistenza delle donne musulmane a qualsiasi imposizione patriarcale è sempre esistita, aggiungendo anche che più che per il velo in sé, la protesta nasce – oltre alla profonda crisi economico-sociale in cui riversa l’Iran e la repressione della dittatura di Khamenei – per rivendicare il diritto di poter scegliere cosa indossare. Il protagonismo delle donne (giornaliste, esperte, attiviste) di origine straniera, di religione musulmana e femministe quindi, che per esperienza o studi conoscono a fondo questi temi, in questo tipo di dibattiti, è cruciale nei media mainstream italiani – ma puntualmente la loro presenza non viene considerata.

Questa assenza vale anche per le persone nere che vengono tirate fuori – sempre come oggetti del dibattito e mai come soggetti attivi che prendono parola. L’ultimo caso riguarda quello della pallavolista Paola Egonu, in particolare del suo sfogo, ripreso da uno spettatore, alla fine di una partita persa contro la nazionale statunitense in cui parla non solo del peso di essere quella che porta in casa le vittorie e di quanto gravi su di lei anche la perdita, ma anche della frustrazione di ricevere commenti discriminatori, riguardanti perfino la sua cittadinanza italiana. La reazione del giornalismo mainstream è stata quella di banalizzare e sminuire una delle tante esperienze che le persone razzializzate comuni vivono quotidianamente, ossia il non essere riconosciute come italiane. Anziché spostare il dibattito su una discriminazione sistemica e istituzionale, soprattutto se si pensa alla questione della riforma di cittadinanza e al non riconoscimento di oltre un milione di persone nate o cresciute in questo paese, sul Repubblica, ad esempio, si è parlato di “stress” da gestire e di come i campioni debbano “resistere anche agli insulti”.

Inoltre, considerando che perfino Palazzo Chigi è intervenuto in difesa di Egonu parlando di “orgoglio nazionale”, sembra che in Italia una persona abbia il diritto di essere riconosciuta come parte integrante della società solo quando diventa “prestigio per la patria” – soprattutto nello sport, salvo poi non segnare un gol decisivo o perdere una gara di atletica, allora, in quel caso, ripartono gli insulti razzisti dagli spalti. E nonostante questo argomento vada oltre gli stadi e le arene, il dibattito è nato e morto lì, senza, di nuovo, alcun coinvolgimento delle persone direttamente coinvolte che non saranno delle campionesse di Serie A o vincitrici di ori olimpici, ma che vivono e affrontano una società che continua a ignorarle e discriminarle.

Come cambiare paradigma

Risulta quindi evidente che i media mainstream italiani non solo non riflettono la diversità che caratterizza la società di questo paese, ma continuano a ignorare le tante soggettività con diverse origini che hanno un pensiero, delle opinioni, e soprattutto rappresentano l’anello mancante per decostruire le tematiche finora trattate. Nonostante quest’assenza nelle trasmissioni televisive in cui si parla di attualità o nelle redazioni giornalistiche più in vista, i social media sono diventati però il portale per eccellenza per far sì che le persone razzializzate siano protagoniste, appropriandosi della narrazione che viene costantemente fatta su di loro. Per citare alcuni progetti: Colory*, nato per “vedere una maggiore e migliore rappresentazione della cultura Italiana a ColorY* ed essere parte di una società sempre più inclusiva e consapevole”; la campagna CambieRAI, nata da giovani italiani e italiane di varie origini per denunciare il razzismo nella televisione italiana – dall’utilizzo della blackface fino all’utilizzo della N-word – come l’attrice Valeria Fabrizi che parlando di sé da giovane nel programma A Ruota libera di Rai 1, in riferimento alla sua carnagione ha affermato “Bellissima no… sembro una neg*a, una ragazza di colore”; la neonata Dotz, piattaforma che tratta di attualità, politica, cultura, economia nata dalla necessità di creare, si legge nella descrizione, un’alternativa che combatta gli stereotipi etnico-culturali che possiamo trovare nel giornalismo mainstream; Africans United piattaforma nata per decostruire stereotipi e pregiudizi sul continente africano e per parlare di cultura e diaspora africana in Europa e nel mondo.

A queste piattaforme si aggiungono altri contesti artistico culturali realizzati da persone (scrittrici, attiviste e attivisti, giornalisti, artisti) di varie origini come il Festival Divercity di Milano o il Black History Month Festival di Torino. Quindi non è che non ci siano persone da contattare per parlare di determinate tematiche in maniera seria e informata, il punto è l’esclusione sistematica di queste realtà dalla narrazione generale. Ci troviamo davanti a un giornalismo conservatore – quello che poi, di fronte a quest’innovazione, di linguaggio e persone, tratta a sproposito di cancel culture o di “dittatura del politicamente corretto” – aggrappato a un modo di fare informazione che non risponde più alle esigenze attuali. Per cambiarlo è necessario non solo prendere atto del fatto che un certo giornalismo non cambierà mai se non iniziano a cambiare anche le redazioni, ma che persone di varie origini che si stanno riappropriando della propria narrazione esistono già, basta solo ascoltare, chiedere e coinvolgere.