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Mai come negli ultimi due anni, la salute e la sanità sono state al centro del discorso pubblico, e sono emerse mancanze e debolezze del Sistema sanitario nazionale. Perciò è nato a Torino un esperimento di consultorio differente, che vuole dare risposta ad alcuni dei limiti riscontrati da molte e molti in fatto di accesso all’aborto, alle cure ginecologiche e alle terapie per donne, ma anche per persone trans, per migranti e chi non possiede documenti.

Si chiama Consultoria, al femminile, ma anche al plurale, perché vuole tornare a essere uno spazio politico e aperto a diverse soggettività e con diversi trascorsi, intersezionale. E questo approccio lo si vede già dalla sua composizione: ha aperto la scorsa primavera, dopo un lungo studio e grazie all’unione di esperienze di sanità popolare, femminismo e transfemminismo.

Un luogo aperto

La Consultoria si trova negli spazi del preesistente ambulatorio popolare Faith nato nel 2009 dopo un lungo percorso legato alle occupazioni abitative dei rifugiati e intitolato a Fatih, un uomo di 38 anni morto nel Cie (oggi Cpr) di Torino per mancata assistenza medica.

È un luogo che due volte a settimana offre visite gratuite e lotta per il diritto a una salute non privatizzata o legata alla esibizione di un documento o una residenza. Durante il Covid si è trovato a rispondere in un primo momento all’emergenza, soprattutto delle persone marginalizzate, senza fissa dimora e fuori dal circuito sanitario pubblico.

La Consultoria è poi promossa dal movimento femminista Non una di meno che, tra le altre cose, fa battaglie sul territorio per l’attuazione delle linee guida sulla pillola abortiva, per il riconoscimento delle cosiddette “malattie invisibili” (vulvodinia, endometriosi, adenomiosi, fibromialgia, dolore pelvico cronico) e per l’accesso a prestazioni ginecologiche e ostetriche di vario tipo.

Al momento per una mammografia o per una visita l’attesa in Piemonte può essere di oltre un anno. Tutto questo in una regione governata dalla destra che ha permesso, con una delibera, che le associazioni antiabortiste entrassero negli ospedali, limitando l’autodeterminazione delle donne.

Sistema sanitario fragile

C’è poi il gruppo Sei Trans*, nato l’autunno scorso dopo mesi difficili per le persone trans, lasciate talvolta senza terapia, e che oggi mette in risalto i difetti di una sanità che non sa rispondere a esigenze specifiche. Attualmente per Piemonte e Valle d’Aosta esiste un solo centro ospedaliero pubblico per questa utenza: l’attesa per il primo colloquio conoscitivo è di un anno, per la prescrizione della terapia ormonale sei mesi, per le relazioni (ulteriori dodici mesi) che autorizzano cambio anagrafico (dai tre mesi a un anno per una sentenza) ed eventuali interventi chirurgici (circa altri sei mesi per le liste d’attesa). Oltre alla burocrazia, il gruppo denuncia anche il personale medico poco preparato e accogliente, e un approccio troppo patologizzante.

«Non vogliamo tappare i buchi di un welfare che non sta in piedi, ma costruire qualcosa di diverso e reclamare a gran voce quello che dovrebbe essere e che non è. Non vogliamo fare l’associazione del terzo settore che sostituisce il pubblico», spiega una promotrice della Consultoria. Anche la richiesta di non pubblicare i nomi delle intervistate è legata alla scelta di far risaltare la dimensione collettiva, di partecipazione tra uguali a un progetto condiviso.

Si vuole costruire un consultorio come spazio multidisciplinare agito dal basso, non solo medico, ma che prosegua quella storia politica iniziata negli anni Settanta e che si è persa con il tempo. Una risposta di classe prima di tutto, specificano le attiviste della Consultoria, che garantisca la gratuità e che riscriva anche il rapporto tra medico e paziente, con più ascolto e attenzione, e dia alle persone anche strumenti di automonitoraggio, autocura e possibilità di comprendere meglio il proprio corpo.

L’intersezionalità

Il tema è ampio, ma proprio l’approccio intersezionale tiene insieme i pezzi unendo le esperienze di molti. Un’inchiesta sulla salute portata avanti da Non una di meno evidenzia che quando si tratta di questioni ginecologiche e ostetriche tuttora manca un pieno riconoscimento dei bisogni, delle necessità e delle soggettività. È quello che viene definito “processo di invalidazione”.

Significa ad esempio che le persone trans hanno difficoltà ad avere un trattamento adeguato alla loro esperienza o alla stigmatizzazione delle persone nere. «Se sei lesbica, ti dicono che non possono farti una visita perché vergine, se sei donna e hai qualche dolore, di non preoccuparti, che è normale provare dolore con le mestruazioni; se sei una donna nera che esageri con il dolore, il tuo dolore vale meno».

Per le persone straniere la prima barriera è quella linguistica, ma non c’è solo quella: «Va considerato l’aspetto culturale, che va oltre la sola traduzione del parlato». I mediatori culturali mancano già nel pubblico e sopperire a questa mancanza non è semplice per un progetto volontario, soprattutto vista la grande risposta che c’è stata nei primi mesi di apertura.

Nel servizio pubblico le attiviste riscontrano una mancanza di formazione sia su tematiche mediche, molte delle quali ancora ignorate anche a livello internazionale e di studi, che sul lato umano, sul fronte dell’approccio a soggettività diverse. «Abbiamo fatto una riflessione su come strutturalmente la medicina che si insegna nelle università sia patriarcale, perché si insegna poco sui nostri corpi che sono diversi dall’uomo bianco di settanta chili, per questo risulta discriminatorio per molti». Solo negli ultimi anni questi aspetti sono stati approfonditi, ma restano limiti e zone cieche.

Cambiamenti concreti

«Ci rendiamo conto che il progetto ha grandi aspettative, ma vogliamo far tutto con il tempo», dice una promotrice. Si parte dalle piccole cose come l’approccio. Prima della visita c’è una stanza di accoglienza, dove si chiacchiera, si possono avere informazioni generali o specifiche del perché si è arrivati lì. Si chiama “accoglienza tra pari”: si chiede se ci sono difficoltà con alcune parti del corpo, per esperienze passate traumatiche, si chiedono i pronomi di riferimento per le persone trans, si cerca di non cadere in quello che alla Consultoria definiscono un automatismo.

Durante la visita si spiega tutto ciò che avviene e si chiede il consenso per ogni passaggio, ci si può fermare in ogni momento: «Dai nostri questionari è emerso quante esperienze ginecologiche siano state traumatiche proprio perché i medici non spiegano nulla. Non sai quello che sta per accadere al tuo corpo. Come infilare uno speculum senza avvertire e magari con violenza».

Alla fine si cerca il feedback: com’è andata? Cosa è migliorabile? Tornerai? E altre domande che non facciano sentire estranea la persona. «Costruire una cura diversa e dimostrare che è possibile per il sistema sanitario avere cura delle persone che entrano in ospedale è una cosa fondamentale», spiega una volontaria.

Condividere saperi

Su questa scia la Consultoria offre dei servizi fuori dalla stretta sanità, ma che vanno a colmare quell’aspetto umano che riguarda la propria salute e le difficoltà di tutti i giorni, come accompagnare alle visite ginecologiche o a un’interruzione di gravidanza. «Chi vuole lascia una donazione, altrimenti non è una prerogativa e ci autofinanziano facendo feste o altre attività».

Quello a cui punta la Consultoria è il mutualismo, l’aiuto reciproco che il sapere proprio può dare agli altri. «Io stessa, che soffro di vulvodinia, mi sono resa conto di aver appreso conoscenze che sono ancora poco diffuse anche in ambiente medico e condivido quanto so con le altre», spiega una volontaria. Per questo motivo esistono, più volte al mese, spazi di ascolto aperto.

«Molte persone trans che assumono terapia ormonale – che qui non gestiamo – sono venute semplicemente a farci domande sul proprio corpo che cambiava o per fare una visita ginecologica che consentisse loro di capire di più», spiega un’attivista. Uno dei problemi maggiori è che mancano persone specializzate in maniera trasversale e multidisciplinare: con un solo centro pubblico e con numeri ridotti, si può fare poco.

Inoltre Sei Trans* denuncia l’assenza di qualcuno che si occupi della parte endocrinologica, dopo che l’unica dottoressa che se ne occupava è andata in pensione a dicembre 2021. «Si viaggia molto a compartimenti stagni – spiega ancora l’attivista – per esempio sei un uomo trans che sta prendendo gli ormoni per la transizione e hai l’endometriosi: cosa fare? Manca un approccio a 360 gradi».

Autrice: Rita Rapisardi

Questo articolo è parte della collaborazione con Domani nell’ambito del progetto Ingrid. L’articolo è stato pubblicato su Domani il 24 settembre 2022. Copyright © Domani, tutti i diritti riservati.